Scheggiata e ariosa, rotta e calda, sussultoria e febbrile, la voce poetica di Davide Rondoni è il segno vivo di un’esperienza in cammino, la testimonianza di qualcuno che abita il mondo nutrendosi senza tregua della bellezza, del sangue, del mistero delle creature e di Dio.
Senza mai porsi “di fronte” al mondo, senza mai osservarlo dall’esterno con quello sguardo freddo, concettuale che è proprio degli scienziati, dei voyeurs e di molti poeti moderni, Rondoni esplora luoghi e tempi, volti e corpi, forme e flussi, crepe e suture dell’esistenza come se esplorare gli fosse necessario e naturale, come se solo lasciandosi chiamare dalla realtà potesse trovare la sua dimora nel tempo, il suo vero respiro. Questo abbandono a ciò che è libera i giorni dall’opacità delle abitudini, dal fitto velo dei pregiudizi e dei luoghi comuni: nuda e incongrua, bellissima e folle, impura e innocente, la vita schiude di continuo i suoi spazi a chi sa coglierne sia gli incanti che il fango, sia i bagliori che i vuoti, le ferite, le ceneri.
Domande semplici ma estreme, simili a quelle che pongono i bambini, certo molto più impegnative di quelle in cui si perdono i pensatori di professione, affiorano tra i passi del Rondoni vagabondo stellare, viandante dalle suole di vento: cosa “fanno” le montagne o il cielo? cos’è un luogo? cos’è un momento? dove si annida l’anima della terra, di un bosco, della notte, delle città? in che modo la realtà ci viene incontro? come dobbiamo muoverci per non sprecarne la ricchezza? Chiedendo, ogni battito cardiaco, ogni respiro si apre a quel mistero che, come aria, acqua o sangue, circola senza tregua nel corpo del mondo facendo d’ogni cosa e d’ogni creatura ciò che è e insieme infinitamente di più.
Poche voci di poeti nei nostri anni sono così vaste, così segnate da quel vento delle distanze che nasce non solo dal senso vivo del plein air o dalla pratica quotidiana del viaggio ma soprattutto dalla capacità intima di mettersi e rimettersi in gioco, dai brividi e dall’arsione della carne che si riscopre spirito e dello spirito che si riconosce carne, da una sete di libertà da lupo delle steppe, dall’urgenza di domande che non possono trovare risposte.
Se spesso non ci sono risposte, questo è sempre chiaro al poeta mentre oscilla, ondeggia, sbanda fra partenze e ritorni, avventure e attese, bagliori e “fiori rapidi d’ombra”: che in ogni strada ogni svolta è una promessa d’altro, un richiamo del possibile e dell’impossibile, un segno dell’ignoto, un seme della meraviglia che nasce e rinasce dalle pieghe del tempo.
Lungo i secoli, fra vie e orizzonti molto diversi tra loro, si è creata una famiglia ideale di poeti, scrittori e artisti in cammino, da Dante (dai passi tragici del suo esilio tesi al Regno di Dio) ad alcuni tra i più struggenti lirici giapponesi (Bashō, Ryōkan, Santoka), miracolosi raccoglitori di epifanie sui sentieri della povertà, fra le pietre dell’effimero o del nulla; dai più intrepidi maestri di parole nate e cresciute fra strade immense, spruzzi salati d’oceano e risacche di vento (uomini come Melville, Stevenson, Whitman, London, Kerouac) a Rimbaud e al nostro Campana, alle loro fughe rovinose e brucianti verso l’inesprimibile, fino al candido, ebbro, mitemente folle Robert Walser, antieroe di vagabondaggi senza patria, mistico di una leggerezza senza dimora…
Rondoni appartiene a questa famiglia. In lui la tenera, ardente pazienza di Bashō o di Walser e l’impazienza visionaria, febbrile di Rimbaud o di Kerouac convivono come i due profili di uno stesso spirito, tanto innamorato del mondo, desideroso di riconoscersi tutt’uno con esso, di respirare all’unisono con campi, colline e città, quanto votato a spostarsi insieme alle “migrazioni della luce” e delle nuvole, a sottrarsi ad ogni attaccamento, a ripartire ogni giorno e ogni notte affidandosi al pathos del movimento come a qualcosa che incanta e ferisce, come alla musica segreta e fatale del tutto, come a un orizzonte senza regole, senza confini se non quelli dell’anima, dell’infinito.