Nella Poesia di Rodolfo Vettorello sono numerosi i riferimenti a Montale.
Ciò appare evidente sia dai titoli di alcune sue raccolte, come “Spesso il male di vivere ho incontrato” e “Noi non sappiamo quale sortiremo”, sia in alcune poesie dove l’omaggio al poeta degli “Ossi di Seppia” si svela mediato attraverso la figura di una Clizia deangelizzata, che gli sorride dalla vetrina di una libreria, o, in modo più diretto, nel turbamento improvviso, che lo coglie, alla vista di una targa con incisi i versi di una poesia del Premio Nobel ligure.
Da questo dato di fatto, da questo suo palese, dichiarato omaggio a Montale è nata, in un primo momento, la decisione di assegnargli il Premio per la sezione Poesia. Tuttavia, nell’approfondire la conoscenza della sua (forse anche troppo ampia) produzione poetica, abbiamo avuto modo di comprendere quanto il riconoscimento che andiamo oggi ad assegnargli vada ben oltre l’iniziale nostra prima motivazione.
Come infatti scrive il critico Paolo Lagazzi: “Vettorello è come un antico artigiano di rime, ritmi e accenti” che “in versi spesso perfetti ci dice e ripete che nulla ha senso, o che il solo senso è il nulla” “perennemente sospeso tra i richiami dell’abisso e quella piccola, umile ricerca quotidiana di attimi di tregua che può sempre aiutare le anime delicate e ferite”.
E, ancora, Lagazzi riconosce “a questo singolare defilatissimo poeta” che con piacere portiamo all’attenzione di un pubblico più vasto, di essere “capace di riflessioni rigorose nutrito (com’è) di quel senso dei rapporti, delle umane distanze e delle misure del pensiero che forse solo un architetto (quale è Vettorello) può conoscere”.
“Sia le esasperazioni dell’intelligenza disincantata che le intransigenze dei filosofi dell’arido nulla – si legge ancora nella motivazione del professor Paolo Lagazzi – ripugnano al suo spirito votato all’understatement, ai toni smorzati, alla penombra, alle parole simili a cristalli tersi e leggeri. …Se Montale oscillando fra il “male di vivere” e il sogno di nutrimenti celesti, ha ricordato a tutto il Novecento, con la sua “Anguilla”, che c’è sempre qualcosa che rinasce “quando tutto pare / incarbonirsi”, anche per Vettorello è fondamentale cogliere “il fiato caldo della vita” dovunque e comunque si manifesti: tra i reietti della terra (nel “bronzo” della loro pelle, nel nero dei loro occhi) come nelle movenze strane di una lucertola vibrante del desiderio di sole; nelle rondini che, tornando, risvegliano con i loro gridi l’incanto della primavera perfino in una Milano dove il cielo è plumbeo; come nel vento che, mescolando le nubi con i nuovi profumi degli alberi e dell’erba, sembra invitare lo spirito all’oblio, al libero gioco della fantasia e, con essa, alla luce di quell’altrove in cui la ragione non crede”.