Emilio Isgrò

“Premio Montale Fuori di Casa” per l’Opera Letteraria

 Per la complessità e l’originalità che da più di sessant’anni contraddistinguono la sua opera letteraria, poetica e narrativa oltre che artistica. Per non aver mai tradito la letteratura, ma averne anzi trasportato le istanze nel mondo delle arti visive.

Emilio Isgrò è un uomo del POIEIN, del fare, del creare. Artista concettuale, pittore, scrittore, drammaturgo, regista, egli è certamente tutto questo, ma è anche e specialmente qualcosa di più dei diversi aspetti che la sua poliedrica personalità tiene uniti: è un Poeta. Il suo amore per la parola, per il logos, (“amico verbo che mi fai passare / dal sogno alla sostanza senza cedere”), lo ha infatti portato, per oltre mezzo secolo, a misurarsi  con la POIESIS (ποίησις), con l’atto creativo – a nostro giudizio – più elevato che un essere umano possa compiere, con la parola poetica, “che è poi la parola umana per eccellenza”, come scrive lo stesso Isgrò nel suo Autocurriculum (Sellerio editore). Nelle sue raccolte poetiche, con una voce nuova e dirompente, attraverso un uso sapiente sia del verso libero che sia delle forme classiche della grande tradizione poetica italiana ed europea quali il sonetto, il poemetto e la canzone, Emilio Isgrò ha espresso le sue più profonde convinzioni ed emozioni: amore, rabbia, sdegno civile, sensualità e nostalgia dello spirito.  

Biografia critica 

La sua prima raccolta poetica Fiere del sud scritta appena diciannovenne nel 1956, giunto a Milano dalla nativa Sicilia, fu pubblicata da Arturo Schwarz, uno degli editori più rilevanti e raffinati del panorama editoriale e artistico di quegli anni che nel proprio catalogo già annoverava nomi come Ungaretti e Quasimodo. Di questa raccolta che, pur nascendo sulla linea del meridionalismo (pressoché obbligatorio in quegli anni di dopoguerra), “lo stemperava in una visione più immaginosa e visionaria”, perdendo ogni alone retorico Pier Paolo Pasolini scrisse nell’articolo “La poesia e il Sud” sottolineando il profondo legame che Isgrò mostrava  con la sua terra natale – la Sicilia. Un amore, che è giusto sottolineare, sottende tutta la sua attività letteraria e artistica. L’apprezzamento di Pasolini e di Sereni per la poesia del giovane Isgrò suscitò una certa impressione nel mondo letterario dell’epoca, ma questi due intellettuali non furono gli unici ad esprimersi positivamente nei suoi confronti.   

Poco dopo infatti i suoi versi vennero pubblicati sulle pagine del “Menabò”, la storica rivista letteraria diretta da Elio Vittorini e Italo Calvino. Erano quelli gli anni fervidi di idee che portarono alla nascita della Neoavanguardia, di cui Isgrò fu per certi versi anticipatore, per quel suo personale intento nel distaccarsi dai canoni tradizionali della letteratura italiana degli anni Cinquanta, per quella necessità che sentiva di purificare la poesia dalle scorie del linguaggio. E di ciò si accorse anche il poeta Elio Pagliarani, uno degli esponenti più autorevoli e originali del Gruppo 63 che anche per questo tanto tanto lo stimò. Trasferitosi da Milano a Venezia come responsabile della terza pagina e dei supplementi culturali del “Gazzettino”, nella città lagunare Isgrò  si legò in amicizia con poeti e intellettuali come Aldo Palazzeschi, Giovanni Comisso, Ezra Pound ed Eugenio Montale che, forse, non comprese del tutto quella rivoluzionaria dichiarazione pubblica del 1966: “La parola è morta,” (Dichiarazione 1) con cui Isgrò prese le distanze dalla poesia concreta e da quella tecnologica, proponendo una sua personale concezione di poesia come arte generale del segno. Egli sentiva infatti fortissimo, il bisogno di superare anche l’esperienza delle avanguardie storiche, per porre i fondamenti di una nuova poesia visiva: “una forma ibrida che unisce il sembiante della parola all’essenza dell’immagine e viceversa“. Questa ricerca trovò espressione in quello stesso anno, oltre che nella sua seconda raccolta poetica L’età della ginnastica (Arnoldo Mondadori editore), opera anarchica, personale, distante anche dalle voci della  Neoavanguardia, nelle  sue prime Cancellature, che concorsero allo sviluppo della poesia visiva e dell’arte concettuale.La cancellatura che – come scrive  Isgrò – non è una banale negazione ma piuttosto l’affermazione di nuovi significati….E ci saranno sempre artisti e poeti disposti a esplorare quell’universo in cui non si sa bene dove finisce la parola e dove comincia l’immagine”. A questa seconda opera fece seguito un silenzio poetico, ma non letterario, di trent’anni. In essi Isgrò si espresse, oltre che con l’opera artistica, vieppiù sempre più apprezzata, anche attraverso la narrativa che rappresenta un capitolo a sé nella sua poliedrica vita artistica. Una narrativa, espressionista e surreale, in cui si sentono riecheggiare gli echi colti del plurilinguismo della poesia comica della fine del secolo XV e del cinquecento, quella del Pulci e del Folengo, così come del teatro dell’assurdo di Ionesco, ma che si afferma e caratterizza come operazione dissacratoria dei formalismi codificati della società di massa in nome di una libertà totale dello scrittore. Un’opera letteraria che ha giustamente richiede una ripubblicazione, una rivisitazione, un più approfondito studio critico, come viene richiesto da numerose ed autorevoli voci. E se, come ha perfettamente notato il raffinato critico Paolo di Stefano, a proposito del romanzo  d’esordio Marta de Rogatiis Johnson del 1977 (a suo parere il risultato più dirompente della narrativa di Isgrò), in queste pagine a trionfare è il “carattere parodico di fantastico scompiglio e quasi di sberleffo rispetto alla produzione coeva”, in Polifemo, del 1989 il registro è quello mitico – cosmogonico. Ne L’asta delle ceneri pubblicato da Camunia nel 1994 “il carattere  deflagrante della sua scrittura – complice il difficile periodo storico che stava attraversando il nostro Paese – si colora di amara carica civile”. Nel 1996 Isgrò ritorna alla poesia con la raccolta Oratorio dei ladri, ancora una volta edita da Arnoldo Mondadori, opera di forte impatto emotivo, caratterizzata da un linguaggio energico che si avvale, per alcune poesie, anche della forza del dialetto siciliano, scelto per la sua  forma “libera e fluttuante”. In questa raccolta Isgrò si misura anche nel poemetto e indimenticabili  restano e resteranno il testo d’apertura, “Gibella del Martirio”, scritto nel quindicesimo anniversario del terremoto del Belice ed “Epilogo”, con la famosa “Preghiera ecumenica per la salvezza dell’arte e della cultura”. In essa Isgrò invoca “Pietà per tutti i libri/che hanno degradato il mondo/narrando di zucchero e miele…../pietà per tutti i versi gelidi/pietà per tutti i poemi algidi./Pietà per tutte le musiche non sincere/che hanno dato coraggio ai ladri/scatenando razzismo e lacrime”. Un’interpretazione profetica la sua, di una tragica realtà non più solo culturale, ma umana e sociale che  oggi stiamo purtroppo pienamente vivendo, così come si rende evidente nella sua raccolta poetica, Quel che resta di Dio edita da Guanda nel 2019. Essa si presenta, come bene ha notato Alessandro Zaccuri, “come una Sacra rappresentazione, fin dalla suddivisione in sezioni , tutte contrassegnate dal lemma “quel che resta di…”. 

Nell’ultima “Quel che resta del Mediterraneo” Isgrò si mostra ancora una volta Poeta civile che non può tacere: “Perché si parte da una strage bianca/di migranti che cantano sul mare./ Perché si viene da una strada nera/di anime scomposte dalla fame./Da una luce tentennante e miope/che nel passato secolo non c’era./Questo è un seme d’arancia. Questo è Dio”. 

“En archè en o lògos, kài o lògos en pros ton theòn, kai theòs en o lògos. In principio era la parola e la parola era presso il Dio e il Dio era la parola”. Che resta dunque di Dio? Il Lògos.

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